Il mondiale gravel appena trascorso è stata l'ennesima occasione di riflessione su una questione che tiene banco da quando questa disciplina ha iniziato a guadagnarsi il suo spazio anche nel vecchio continente e in Italia. Le gare gravel hanno senso?
Tra appassionati e addetti ai lavori pare che oggi non ci sia nessun'altra domanda così divisiva...
Nella gara Elite abbiamo visto lo specchio di quanto questa disciplina sia ancora in una fase ibrida e di difficile interpretazione. Specialisti, stradisti e atleti multi-disciplinari hanno scelto per questa corsa bici da strada, da gravel e da ciclocross in un tripudio di allestimenti che ci hanno dato tanto da raccontare.
A vincere fra gli uomini il più ibrido degli stradisti, colui che verrà sempre ricordato per aver vinto una Milano Sanremo con un reggisella telescopico e che in questa occasione ha trovato una corsa disegnata proprio per le sue caratteristiche. Tanto per capirci, guardate come andava in discesa nell'ultima parte di gara:
A muovere l’UCI verso l’organizzazione di un circuito professionistico di gare gravel sono certo ragioni economiche oltre che di sostegno ad un movimento che richiama sempre più appassionati. Ed è normale che sia così, come in qualunque sport che crescendo genera un mercato, si struttura e richiama investimenti. Investimenti che permettono di pagare gli atleti e di organizzare gare come quella che abbiamo appena ospitato in Italia.
Il fatto che esista un contesto professionistico trainante nella disciplina non può che essere un bene per il gravel. Prova ne sia l’entusiasmo degli specialisti che pure si sono visti spesso battuti da chi durante il resto dell’anno corre solo su asfalto.
La visibilità che questi atleti possono ottenere da un Mondiale non è infatti paragonabile a quella di nessun altro evento di questa specialità, e di questa visibilità il gravel ha bisogno per vivere e prosperare.
È innegabile poi che il pubblico abbia risposto con un entusiasmo e con un calore che raramente ci capita di vedere nelle più blasonate gare su strada, almeno in Italia. Ben venga dunque questo tipo di agonismo, se può riportare le persone ad appassionarsi al ciclismo, in qualunque forma esso si presenti.
Quanto agli amatori, hanno partecipato alla prova circa 1.000 atleti, di cui un buon 10% di donne. Numeri che riflettono la crescita degli eventi gravel nel nostro paese a fronte di una diffusa crisi delle tradizionali granfondo su strada.
Dunque l’agonismo piace anche nel gravel? Sicuramente sì ad una bella fetta di appassionati, con buona pace di coloro che sostengono che sia l’antitesi di questo modo di andare in bici. Gravel significherebbe infatti un approccio più rilassato e conviviale, che avrebbe come obiettivi la scoperta del territorio, la ricerca dell’avventura e il contatto con la natura. La condivisione, piuttosto che la contrapposizione. L’incontro, piuttosto che lo scontro.
Ma chi dice che in tutto questo non possa rientrare anche un po’ di competizione?
Chi dice che queste due interpretazioni del gravel non possano convivere?
Per come la vedo io l’agonismo amatoriale, perché di questo vogliamo parlare, è quella cosa che nasce da “chi arriva prima al cassonetto”.
Deve essere spontaneo e naturale come qualunque altro “gioco” che possiamo fare con la nostra bici, che si tratti di lanciarsi lungo i tornanti di una discesa o di affrontare una salita ultratecnica o di scoprire il panorama in vetta.
Nel gravel, soprattutto in quello che viene dalla scena più attiva su questo fronte, ovvero quella americana, questo aspetto è molto evidente.
Degli USA ho sempre apprezzato questa capacità di difendere il senso del divertimento nella competizione, un aspetto prezioso che da noi si tende spesso a dimenticare.
Il problema, semmai, è il modo in cui viene inteso l'agonismo, non l'agonismo in senso stretto...
Un anno fa di questi tempi ero a Portland, città attivissima sulla scena del ciclocross. Ho assistito ad un evento del circuito amatoriale di zona e mi ha colpito quanto somigliasse ad una festa più che ad una gara ciclistica.
A correre erano intere famiglie: mamme, papà e bambini ciascuno nella propria categoria, nonni di 70 anni, e pur in una gara di medio livello erano previste categorie per peso e per disabilità. Inclusività, condivisione, divertimento… tutto dentro la competizione.
Ecco, questo a mio avviso dovrebbe essere lo spirito dell’agonismo amatoriale. Non l’imitazione dei professionisti, che di ciclismo devono vivere, ma un divertimento che come nei giochi dei bambini di tutto il mondo include anche il momento in cui ci si misura. In maniera sana, senza eccessi...
Nel gravel questo aspetto esiste ancora, proprio perchè la disciplina è ancora acerba e richiama persone (e bici) di ogni tipologia. Ma è giusto dire “ancora”? Non è forse questa una specificità importante del gravel, che lo aiuta a restare fuori dagli schemi nei quali ci sentiamo in obbligo di rispondere a determinare requisiti per essere definiti ciclisti?
Per come la vedo io il ciclismo è un continuum, fatto di due ruote e un manubrio. Siamo noi a imporre dei limiti e a voler stabilire cosa è cosa. Ma di fatto stiamo sempre pedalando, che usiamo la nostra gravel per esplorare un nuovo sterrato dietro casa o per un viaggio in bikepacking o che scegliamo di partecipare ad una gara.
Chi decide cos’è il gravel?
Non è che siamo noi appassionai e addetti ai lavori ad arrovellarci troppo il cervello per trovargli dei confini, dimenticando però la visione generale?
Forse l’UCI stabilirà dei regolamenti, e forse nel tempo arriveremo ad avere una maggiore schematicità anche in questa disciplina. Chi è interessato alle gare gravel si adeguerà, chi non lo è continuerà a viverlo come più gli piace, visto che mettere il numero sulla schiena non è obbligatorio per nessuno...
Per il momento io vedo una grande potenzialità in questo movimento. Può aiutarci a recuperare uno spirito che si è perso in altre discipline dove si è creata una separazione tra chi corre e chi va in bici "solo per divertimento”.
Nel gravel si può ancora correre per divertimento.
Più che preoccuparci di definire cos'è il gravel dovremmo occuparci di preservare questa dimensione...
Ci vediamo dove finisce l’asfalto.
Foto d'apertura Thomas Maheux/SWpix.com
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Sull'autore
Silvia Marcozzi
Vivo da sempre in equilibrio tra l’amore per lo studio e le parole - ho due lauree in lettere e un dottorato in lingue - e il bisogno di vivere e fare sport all’aperto. Mi sono occupata a lungo di libri e di eventi. Dieci anni fa sono salita su una bici da corsa e non sono più scesa, divertendomi ogni tanto a correre qualche granfondo. Da poco ho scoperto il vasto mondo dell’off-road, dal gravel alla Mtb passando per le e-Mtb, e ho definitivamente capito che la mia sarà sempre più una vita a pedali.