Allenarsi significa applicare uno stress in misura tale da indurre un miglioramento della performance. Per non compromettere la condizione generale lo stimolo stressante deve essere sempre calcolato, misurato, gestito.
Eppure, nella bici come nella vita, l'ambiente non è sempre controllato e capita di dover fare i conti con difficoltà e imprevisti non calcolati e non calcolabili.
Per diventare ciclisti migliori, forse, bisogna dunque anche allenarsi al disagio?
Ciclismo giovanile: perché allenarsi al disagio
Recentemente mi sono ritrovata a parlare di ciclismo giovanile con alcuni ex ciclisti professionisti. Sostenevano che sempre più spesso i giovanissimi che iniziano a correre pedalano su bici sin troppo raffinate.
Condizione che si verifica magari proprio quando è la famiglia a supportare i ragazzi che non possono ancora contare su un contratto.
Si pensa così di aiutarli mettendoli nella condizione ideale per esprimere il proprio potenziale, ma nel lungo periodo questo può anche trasformarsi in uno svantaggio?
“I ragazzi che iniziano a correre le ruote in carbonio non dovrebbero nemmeno vederle fino agli U23” affermava uno di cui non vi stiamo a fare il nome.
“Quando sono passato professionista ho sempre avuto bici peggiori di quelle che mi davano come dilettante” ha replicato un altro.
Non sempre la progressione dei mezzi e delle condizioni è lineare. E' vero che i tempi sono cambiati, ma i ragazzi che crescono abituati al meglio (ciclisticamente parlando), non sempre riescono ad adattarsi al disagio.
Immaginiamo sempre che i professionisti pedalino sulle bici migliori del mondo, ma non tutte le squadre e non tutti i corridori hanno in dotazione bici top di gamma di marchi eccellenti.
E non tutte le bici fornite alle squadre performano ad alto livello. Non è la prima volta che si sente parlare di bici fornite dagli sponsor che penalizzano gli atleti. A volte, si vocifera, al punto da indurre le squadre a sostituirle con bici custom "ribrandizzate" per salvare la stagione (oggi non accade quasi più, ma in passato succedeva con una certa frequenza).
Lo stimolo del disagio nella quotidianità
Abbandoniamo un attimo il mondo del ciclismo vero.
Fino all’anno scorso, quando lavoravo a quasi trenta chilometri da casa, andavo al lavoro in bici da corsa. Dopo essermi trasferita quest'anno i chilometri che mi separano dal lavoro sono decisamente meno, circa 6.
Per questo ho abbandonato la bici da corsa in favore di una gravel in alluminio con ruote da 650b. L'ho adattata ad un uso "urban" con tanto di borse, luci e parafanghi, come vedete dalla foto qui sotto.
Ciò significa che non ho più bisogno di cambiarmi quando arrivo in ufficio e che porto con me tutto ciò che mi serve dentro le mie Ortlieb ben ancorate al telaio.
Pedalando durante tutta l’estate con i sandali ai piedi, vestita normalmente e con qualche chilo tra computer, scartoffie ed equipaggiamento vario sulla bici, mi sono sentita estremamente a disagio.
Ho pensato a quanto sono “abituata bene” quando pedalo sulla mia bici da corsa. Posizione corretta, scarpette top di gamma, fondello, la mia Trek Emonda con ruote in carbonio e un super fluido Shimano Ultegra…
Pedalare una bici nel quotidiano, per di più sulle strade di collina dove abito, mi sembra a volte una punizione divina. Punizione che mi autoinfliggo solo perchè credo fortemente nel potere del commuting di cambiare il mondo.
Eppure chilometro dopo chilometro ho preso confidenza. Mi sono abituata a qualche disagio, come i vestiti umidi quando arrivo al lavoro o i piedi che scivolano un po’ sui pedali quando metto i sandali leggeri.
Pedalare sulla mia vecchia gravel non mi è sembrato più così pesante, e poi mi sono accorta di una cosa. Quando prendo la bici da corsa per la mia uscita su strada ora, mi sembra davvero di volare.
Ho più voglia di spingere, perché dopo aver arrancato tutti i giorni sul mio muletto da lavoro, ho la sensazione di sedermi su una Formula 1.
L'epopea dello sportivo forgiato dalle difficoltà è finita?
Cresciuta negli anni ’80, all’epoca dei cartoni animati di BimBumBam, non posso fare a meno di pensare a Mimì Ayuara e Mila Azuki, le pallavoliste dei cartoni animati che per allenarsi venivano obbligate a giocare con catene e polsini di piombo.
Erano gli anni in cui Rocky Balboa portava sulle spalle tronchi di abete camminando con la neve fino al ginocchio. Nel frattempo il suo avversario Ivan Drago si allenava in un ambiente asettico e controllato dove ogni parametro era misurato e controllato. Inutile che vi racconti come finiva la storia.
Quello che mi chiedo, insomma, è questo. L’epica dello sportivo forgiato dal disagio che batte il campione abituato ad allenarsi con tutte le comodità era solo una moda o aveva un fondamento?
Le prestazioni enormemente superiori degli atleti di oggi fanno pensare che quell'epoca sia finita. L’allenamento, oggi, è una scienza, non esatta ma sicuramente molto precisa.
I vantaggi di allenarsi al disagio
Eppure, come sosteniamo che le gambe contino ancora, ci sentiamo anche di dire che forse un po’ di disagio potrebbe ancora aiutare i nostri ciclisti, almeno fino ad una certa età. Se non a migliorare i valori assoluti delle loro performance di certo ad affrontare i contrattempi e le difficoltà cui ancora una corsa (e una carriera) può andare soggetta. E magari anche a guidare meglio e quindi ad aumentare la loro sicurezza.
E chissà, magari anche lo spettacolo. Siamo sicuri che l’abitudine a pedalare nel fango e nel freddo di atleti multidiscplinari come Van Aert, Van der Poel e Pidcock non incida sul modo di correre di questi fenomeni tanto amati dal pubblico?
Nel suo libro autobiografico “Asfalto” il pilota di Moto GP Andrea Dovizioso scrive a proposito dei suoi esordi, quando ancora tutti gli oneri delle gare gravavano sulla famiglia:
Agli stracci come eravamo, l’attrezzatura per correre è quella che è, e alle volte, quando ci troviamo a gareggiare entrambi, capita che papà interrompa addirittura la sua corsa per venire a prestarmi il materiale per la mia che viene immediatamente dopo. Non so quante volte corro con la sua maschera grande il doppio e appannata come il parabrezza dell’auto in pieno inverno: non vedo un tubo, e devo anche sperare che non mi voli via.
Forse è lì che nasce la mia abilità sul bagnato. Tute decenti, poi, neanche a parlarne. Stiamo lanciando il vintage e non lo sappiamo. E anche le moto fanno paura: stravecchie, di quattro-cinque anni prima, con le forcelle scoppiate, l’olio che entra nei freni, zero manutenzione.
Ma è la mia normalità e mi ci adeguo senza storie. Non me ne frega niente delle cose che non ho e mi faccio piacere quelle che ho. Col tempo imparerò che questo è un vantaggio della madonna, il vero valore aggiunto: se fai buoni risultati in questo stato, poi quanto arrivi ad avere dei mezzi decenti fai dei capolavori.”
In conclusione...
Come scrive lo stesso Dovi, magari questo abituarsi al disagio non funzionerà per tutti come ha funzionato per lui. Ma la domanda è lecita, vista anche l’evoluzione dello sport verso un’incidenza sempre maggiore della tecnica sul fattore umano. E vista la penuria di talenti che stiamo vivendo negli ultimi anni nel nostro paese...
Avere mezzi super performanti e condizioni perfette porta a limare i tempi e infrangere record, ma uno sport troppo chirurgico sarà altrettanto bello da vedere?
E soprattutto, se è vero che il ciclismo è una scuola di vita, è quello che serve davvero ai più giovani?
Foto d'apertura facebook.com/ParisRoubaix - ASO Gruber Images
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Sull'autore
Silvia Marcozzi
Vivo da sempre in equilibrio tra l’amore per lo studio e le parole - ho due lauree in lettere e un dottorato in lingue - e il bisogno di vivere e fare sport all’aperto. Mi sono occupata a lungo di libri e di eventi. Dieci anni fa sono salita su una bici da corsa e non sono più scesa, divertendomi ogni tanto a correre qualche granfondo. Da poco ho scoperto il vasto mondo dell’off-road, dal gravel alla Mtb passando per le e-Mtb, e ho definitivamente capito che la mia sarà sempre più una vita a pedali.