Esiste una linea sottile tra follia e coraggio.
Il folle è colui che agisce senza prudenza, senza pensare alle possibili conseguenze.
La persona coraggiosa, invece, deve sapere giocare sulla linea della follia, scendendo a patti con la ragione, affinché sia in grado di valutare quando è il momento di fare un passo in avanti e quando, invece, arretrare ed attendere.
Spesso la differenza non la fa chi è in grado di osare ma chi, assecondando il proprio istinto, sa dosare il ritmo, ascoltando i segnali della natura circostante.
Fermarsi, molte volte, è più di una conquista.
Avevamo lasciato Omar Di Felice alla quinta tappa della sua avventura, dopo aver affrontato la sua giornata più impegnativa, talmente dura che il fisico durante la notte gli ha suggerito di riposare 24 ore e riprendere la marcia il giorno dopo.
La potenza della natura gli ha fatto conoscere una parte di sé che non credeva fosse così sviluppata: il saper soffrire, il rimanere concentrato per non perdere la lucidità e prendere una decisione sbagliata che potrebbe risultare fatale.
La sosta gli ha fatto prendere coscienza di tutto quello che aveva vissuto fino a quel momento e lo ha ricaricato per il giorno seguente.
Fermarsi non ha voluto dire arrendersi, ma lo ha motivato ancor di più a percorrere gli ultimi 120 km che lo separavano da Capo Nord.
L’ostacolo più grande di quest’ultima tappa è stato il vento forte, così forte da formare cumuli di neve in mezzo alla strada, che hanno costretto Omar a percorrere anche alcuni km a piedi, per contrastare le potenti raffiche provenienti dal mare, che più volte hanno rischiato di sbatterlo per terra con tutta la sua bicicletta.
Condizioni meteo talmente avverse che persino le strade locali erano parzialmente chiuse e regolamentate solamente da mezzi spazzaneve che entravano in azione costantemente per liberarle da neve e ghiaccio.
Nonostante ciò il “rompighiaccio”, soprannominato così pochi giorni fa, non ha mai perso di vista l’obiettivo ed è riuscito ad arrivare al tunnel che porta all’isola di Magerøya e successivamente ad Honningsvåg, ultima cittadina prima di Nordkapp.
Qui Omar Di Felice, è stato obbligato ad arrestare la propria corsa a pochi chilometri dalla sbarra che dà accesso a Capo Nord, a causa della totale chiusura delle strade.
Sette giorni, 702,5 km, 9.195 metri di dislivello: sono i dati di #LaplandExtremeUnsupported. (A questo link trovate l'intera avventura registrata su Strava).
Gli abbiamo chiesto come avesse risolto i problemi meccanici relativi alla seconda tappa e quale sia il motivo di questo suo amore infinito verso l’Artico…
Ecco le sue risposte.
- Come hai risolto i problemi causati dalle temperature estreme incontrate durante la seconda tappa?
- “Gli eventi della seconda tappa mi hanno sorpreso in negativo ma, al tempo stesso, mi hanno fornito un ottimo banco di prova. Ho capito qual è il limite di funzionamento di ogni componente della mia bici a determinate temperature.
Se in Canada il test della Wilier Triestina Jena e del gruppo Shimano Ultegra con cui era equipaggiata aveva dato degli ottimi risultati, pur avendo rasentato per molte ore i -30°C, aver raggiunto temperature ancora inferiori mi ha fatto capire che il suo limite di funzionamento è di -32°C.
Al di sotto di quella temperatura il problema principale risiede nel congelamento di alcune parti legate alla trasmissione. Infatti mi è stato del tutto impossibile cambiare rapporto azionando le leve dei deragliatori anteriore e/o posteriore, mentre il liquido presente nel circuito del sistema frenante ha continuato ad avere una discreta efficienza, a patto di tenere sempre in azione le due leve e, quindi, facendo “girare” l’olio al suo interno.
"Per quanto riguarda la parte elettronica, invece, non ci sono molte possibilità di registrare con dei dispositivi GPS tenuti all’esterno: motivo per cui avevo un orologio GPS Suunto 9 sul manubrio e un altro, di backup, all’interno dello zaino.
Il sistema di tracking Neveralone GPS, invece, ha funzionato bene anche a temperature molto rigide, risentendo solamente di alcuni problemi durante una bufera di neve dell’ultimo giorno, perdendo talvolta il segnale dei satelliti.
Quest’esperienza, senz’altro, è servita anche ai miei partner e ai loro team di sviluppo per capire ancora di più il limite di alcuni componenti.
E’ pur vero che queste sono condizioni eccezionali in cui nessun ciclista, probabilmente, si troverà mai a dover pedalare”.
- Che accorgimenti hai usato per limitare al minimo eventuali danni?
- “Per quanto riguarda la parte elettronica ho tenuto a contatto con la pelle alcune device, mentre nello zaino ho riposto il GPS per la registrazione ed il tracking dell’avventura.
Memore dell’esperienza della seconda tappa, durante l’attraversamento di un altopiano nel Finnmark, dove ho dovuto pedalare per 4 ore e 30 minuti ben al di sotto dei -30°C ho azionato sin da subito un rapporto che mi consentisse di arrivare al termine della tappa così da non dover cambiare in condizioni di cavo quasi congelato.
È bastato azionare un 52x28 per portare a termine la tappa.
L’impianto frenante, invece, ha mantenuto una buona efficienza.
"Sicuramente in questi momenti la chiave è la “delicatezza”. Accarezzare la bici come se si stesse danzando sul ghiaccio è fondamentale.
Ogni minimo movimento brusco può generare una caduta sul ghiaccio o, peggio ancora, la rottura di un componente. Immaginate di rompere una catena o altri elementi della trasmissione mentre siete a -35°C nel buio della notte artica vestiti da “ciclisti”: non avreste alcuna possibilità di riparare un’eventuale rottura.
È stato questo, senza ombra di dubbio, uno dei challenge mentali più difficili da superare. Bisogna entrare nell’ordine di idee che, lassù, tutto è diverso da come lo viviamo a latitudini e temperature più consone all’attività sportiva”.
- Alcuni si chiedono il motivo di tutto ciò. Perché lo fai? Cosa ti spinge ad andare avanti nei momenti difficili?
“Chiedersi il perché di certe avventure sarebbe come interrogarsi sul perché l’uomo abbia sentito l’esigenza di scalare l’Everest, mettere il piede sulla Luna o esplorare l’Antartide. Semplicemente, da sempre, l’essere umano ha dentro di sé la voglia di esplorare, di scoprire la natura circostante attraverso la scoperta dei propri limiti (e viceversa).
La passione per l’avventura, l’esplorazione, nonché per il ciclismo, ha radici molto lontane nel mio caso. E’ bastato mixare tutte queste componenti, dando loro un ordine tale da poterne fare una professione, per rendere tutto ciò un vero e proprio stile di vita.
E’ chiaro che, per affrontare determinate situazioni e difficoltà, serve avere una grande motivazione. La mia sfida è dimostrare che dal punto di vista tecnico è tutt’altro che impossibile compiere certe imprese: il vero limite è nella nostra mente e solo una persona altamente motivata e innamorata può portare a termine challenge così estremi.
E’ proprio l’amore la componente chiave: l’amore verso ciò che realizzo, ma anche quello verso la vita, è il motore principale per le mie azioni.
Tanto l’avanzare, quanto l’arretrare, sono mosse da amore ed istinto.
Negli anni ho sviluppato la capacità di analizzare le situazioni, sia da un punto di vista più tecnico e razionale che istintivo.
"Muoversi tra le pieghe della natura lasciando che sia lei a dettare i nostri ritmi è l’atteggiamento migliore che possiamo avere e senz’altro l’unico per la buona riuscita di un’avventura. Se tentassimo di governarla o, peggio ancora, forzarne il corso, saremmo perdenti in partenza”.
Un’avventura iniziata come un “semplice” allenamento per la prossima sfida, si è trasformata nell’avventura più dura mai affrontata in vita sua, ed alla fine è sfociata nella solita storia d’amore tra Omar Di Felice e l’Artico a cui ci ha abituato durante i precedenti inverni.
Questa volta spinto da qualcuno che lo ha accompagnato sin dal primo km, fianco a fianco, “proteggendolo” e donandogli ragione, tenacia e pazienza grazie alle quali è riuscito a raggiungere il proprio obiettivo.
Non sappiamo se Omar abbia toccato con mano limiti fisici e mentali in uno di questi giorni, ma una cosa è certa ed è lui stesso a dirlo:
“Sentire il ghiaccio sotto le ruote, l’aria che raffredda i polmoni, il rosso dell’alba artica che ti riempie gli occhi, mi provoca di nuovo un brivido intenso. Perché in fondo quando la tua voglia di avventura è così grande, non esiste luogo irraggiungibile, o inverno troppo freddo da stoppare la tua voglia di scoprire il mondo.
In fondo bastano una bici, un paio di borse e la voglia di partire.
Certe avventure non finiscono mai.”
Non manca poi così tanto alla partenza per la prossima sfida in Alaska.
Che ne dite se vi raccontassimo questo nuovo viaggio in una terra, il cui nome, incute già timore?
Qui trovate altre storie su due ruote pubblicate su BiciDaStrada.it