Pedalare sul dolore: perché ci affascina la sofferenza nel ciclismo

Silvia Marcozzi
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Pedalare sul dolore: perché ci affascina la sofferenza nel ciclismo

Silvia Marcozzi
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Il ciclismo è fatto di imprese eroiche.
La sua storia è piena di personaggi e di episodi che gli appassionati amano citare come esempi di tenacia e resistenza al dolore e alla fatica.

Anche noi semplici praticanti sappiamo che il ciclismo è fatto spesso di vera e propria sofferenza.
Non si è mai dei buoni ciclisti se non si impara a pedalare sul dolore.
Questo ci vale l’appellativo di “masochisti” da parte di chi in bici non ci va.

Ellen van Dijk parigi roubaix 2021

Ellen Van Dijk all'arrivo della Parigi Roubaix Femmes avec Zwift 2021 / Facebook: Trek_Segafredo / Foto di Jojo Harper

Certo, c’è una strana bellezza nella fatica, fisica e mentale, che lo sforzo della bici incita. Quando poi si assiste a certe prestazioni che possiamo dire veramente strappate al dolore, c’è una parte di noi che resta affascinata.

Viene in mente l’immagine di Fiorenzo Magni che pedala sulla salita bolognese delle Orfanelle verso San Luca stringendo fra i denti una camera d’aria.
Il suo meccanico l’ha fissata al manubrio per evitargli di sforzare la spalla. Magni corre infatti quel giorno con una scapola rotta, avendo rifiutato il gesso per poter continuare il Giro.

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Fiorenzo Magni sulla salita delle Orfanelle nel 1956 / Archivio digitale Sala Borsa

Anche senza episodi così estremi i primi Giri d’Italia erano corse massacranti per chi le affrontava. Basta guardare i chilometraggi delle tappe. La prima edizione del 1909 sommava 2.447 km in 8 tappe.
Il giro del 1924, quello a cui partecipò anche Alfonsina Strada, unica donna della corsa professionistica fino alla recente istituzione del Giro Donne, contava ben 3.613 km in 12 tappe.Fu vinto da Giuseppe Enrici che lo concluse con con un’infezione al piede che gli impediva di camminare.

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Una tappa del Giro nel 1952 / Archivio Giro d'Italia

In tempi più recenti ricordiamo l’episodio occorso all’olandese Jonny Hoogerland, che in una tappa del Tour de France del 2011, finì dentro una recinzione di filo spinato.

Risalì in sella per difendere la maglia a pois appena conquistata. All'arrivo gli furono applicati 33 punti di sutura.
Sul podio era in lacrime. Le foto delle sue gambe rigate di sangue fecero il giro del mondo.

Si tratta di semplice voyeurismo? Della stessa curiosità malsana per il dolore altrui che fa formare  le code di fronte a un incidente in strada? O c’è qualcosa di diverso?

Non vorrei esagerare, ma credo davvero che nella capacità dei ciclisti di pedalare sul dolore in circostanze in cui chiunque altro si fermerebbe, sia un’altissima espressione dell’essere umani.
Ed è questo a farci riconoscere grandezza e bellezza dove dovremmo vedere solo dolore e sofferenza.

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Ancora uno scatto all'arrivo della Parigi-Roubaix 2023, una delle corse più "dolorose" del ciclismo professionistico / Facebook: Paris-Roubaix

Annemiek Van Vleuten, attualmente al suo ultimo anno di attività, ci ha abituati a imprese conquistate a forza di pedalare sul dolore.
Nel 2020 si classifica seconda al Mondiale di Imola con un polso fratturato, e di nuovo nel 2022 conquista il titolo mondiale correndo con il gomito rotto.

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Annemiek Van Vleuten conquista il titolo mondiale nel 2022 correndo con un gomito rotto. Facebook: UCI

Si dice spesso che la bici è una scuola di vita. In sella si vivono tutte le sensazioni di fronte a cui la vita stessa ci mette, e ci si allena ad affrontarle.
Dalla gioia alla paura, dall’esaltazione alla sofferenza.
Dal momento in cui pensiamo di non farcela più a quello in cui ci scopriamo in grado di aggrapparci ad un dettaglio, ad una scheggia di energia, per risollevarci e tornare di nuovo in vetta.

Ma la vita non è quasi mai priva di dolore. Più si cresce e più si impara che la condizione ideale è più una chimera che altro.

Nonostante la propaganda del self-help ci spinga a pensare che sia nelle nostre mani la possibilità di raggiungere la tanto agognata perfezione, la verità è un’altra.
Se siamo sinceri con noi stessi quasi ogni giorno reca la sua pena e la sua difficoltà.

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Giro delle Fiandre 2023 / Facebook: Team Barhain Victorious

C’è sempre un piccolo problema fisico, c’è sempre un fastidio al lavoro, c’è sempre una cattiva notizia o una scocciatura nuova.
E poi ci sono i grandi dolori, quelli che sappiamo che non ci scrolleremo più di dosso, nemmeno una volta inforcata la nostra amata due ruote.

Ecco allora che più che il campione che vince nel giorno o nel momento di grazia che la carriera gli riserva, sentiamo vicino colui che ogni giorno pedala sul dolore.

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Wout Van Aert alle Strade Bianche 2021 / Facebook: Strade Bianche / Foto di Dario Belinghieri

Questo spiega l’affetto per Domenico Pozzovivo e per il suo calvario di infortuni e problemi fisici, di fronte ai quali non si è mai piegato.

Dopo l’infortunio al braccio del 2019 cade sullo stesso gomito al Tour 2020 e corre tutto il successivo Giro d’Italia tra dolori e fasciature.
Finirà comunque undicesimo in classifica generale per poi essere operato nel mese di ottobre. L’infezione si era aggravata al punto da fargli rischiare la cancrena.

pozzovivo giro 2020

Ci sono alcuni episodi che rendono più manifesta e spettacolare la presenza del dolore nel ciclismo.
Ma un ciclista professionista sa che mediamente ogni giorno si pedala  sul dolore e attraverso di esso.
Non si pedala liberi dal dolore. Arriva sempre il momento in cui il dolore bussa, si abbarbica sulla schiena, si accuccia silenzioso e tenace.

Che si tratti di vecchi o nuovi infortuni, di stanchezza, di gambe e polmoni che bruciano perchè si sta dando tutto.
Bisogna allora riuscire a ingannarlo per scrollarselo di dosso, perchè lasci la presa almeno per un po’, oppure bisogna portarlo al traguardo con sé.

Pedalare sul dolore

Non è questo che facciamo ogni giorno anche noi, ognuno di noi, con i nostri dolori piccoli e grandi?

Vedere tagliare il traguardo un ciclista che sta soffrendo ce lo fa sentire fratello e ci dà la speranza, ci offre l’esempio di come si possa vivere con il dolore.
A volte anche trionfarne.
Accettandolo, rimettendosi pazientemente a fare quello che facevamo prima, un colpo di pedale dopo l’altro.
Senza aspettare che ci siano le condizioni perfette per tagliare il traguardo come vorremmo noi.
Il vero campione si adatta alla condizioni che trova, resiste, avanza.
Restando profondamente, dolorosamente umano.

Foto d'apertura © A.S.O. / Gautier Demouveaux

Se volete leggere altre storie di strada le trovate QUI.

La dipendenza da bici. Cosa succede al cervello quando si pedala

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Sull'autore
Silvia Marcozzi

Vivo da sempre in equilibrio tra l’amore per lo studio e le parole - ho due lauree in lettere e un dottorato in lingue - e il bisogno di vivere e fare sport all’aperto. Mi sono occupata a lungo di libri e di eventi. Dieci anni fa sono salita su una bici da corsa e non sono più scesa, divertendomi ogni tanto a correre qualche granfondo. Da poco ho scoperto il vasto mondo dell’off-road, dal gravel alla Mtb passando per le e-Mtb, e ho definitivamente capito che la mia sarà sempre più una vita a pedali.

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